Cultura e Spettacoli

A Gallipoli nel Cinquecento il ‘colmo della schiavitù’

Quando nel XVI secolo Gallipoli era il maggior emporio dell’Italia orientale, il suo porto registrava un intenso traffico commerciale da cui non era esclusa la più desolante merce. Nel porto pugliese, cioè, si mercanteggiava in schiavi. Esiste in proposito un documento della fine del 1598, periodo nel quale “il colmo della schiavitù fu … il fervore di un tal traffico e umano mercimonio”. Si tratta di una Relazione di vendita fatta ‘ad estinta di candela’ (in altre parole, la durata dell’asta non poteva superare il tempo di consumo di una candela, di quali dimensioni però non sappiamo dire). Leggiamone uno stralcio : “… gli schiavi negri sono stati venduti alli sottoscritti prezzi : Antonio, schiavo olivastro, per ducati 110. Giovane schiavo olivastro per ducati 111. Domingo, schiavo negro con un occhio guercio, per ducati 87. Amoret, schiavo negro con due denti manco dalla parte di sinistra di sotto, per ducati 106…”. Sorvoliamo  sulle modalità da foro boario con cui venivano fissate le tariffe e concentriamoci su quest’ultime. Se agli albori del Seicento il prezzo medio oscillava intorno ai cento ducati, più avanti con l’aumento dell’offerta, come si desume dallo studio di altri documenti gallipolini, “il deprezzamento fu inevitabile e il calmiere schiavista oscillò nei prezzi nominativi tra i 60 e i 90 ducati”. Chi erano questi infelici che nei mercati venivano posti in piedi su un bancone e messi in vendita come una partita di angurie o una pezza di seta? Erano per lo più prigionieri di guerra o cittadini di altri paesi strappati a pirati. Invece di restituirli alla loro libertà, l’evangelico Occidente ne faceva oggetto di tratta. In compenso riservava loro un trattamento quasi umanitario. La posizione giuridica in cui veniva a trovarsi in Gallipoli lo schiavo o il turco era pari a quella in cui nel secolo XV si trovarono i giudei gallipolini mentre nel Regno fervevano sentimenti antisemiti. Gli schiavi, rimanevano nella famiglia dell’acquirente e venivano battezzati. Potevano contrarre matrimonio e, morendo, venivano sepolti nella cappelle gentilizie dei loro padroni. E se questi non appartenevano alla nobiltà, gli schiavi trovavano comunque riposo in terra consacrata. Il padrone morente, poi, si faceva premura nelle ultime volontà di raccomandare lo schiavo alla generosità del proprio erede. L’impatto sociale del fenomeno ebbe riverberi anche architettonici. Nel borgo antico di Gallipoli, per esempio, si possono notare balconi secenteschi sostenuti da una fuga di telamoni nelle cui fattezze non è difficile scorgere tratti turchi. Persino acquasantiere, cattedre e pulpiti sono sostenute da putti e figure di chiara ispirazione mediorientale.

 

Italo Interesse

 


Pubblicato il 2 Settembre 2014

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