Cultura e Spettacoli

Giuseppe s’inginocchiò davanti a Filomena

La mattina del 28 novembre 1864, in un luogo imprecisato di Melfi, un plotone di soldati fucilava cinque ‘briganti’ che il giorno prima un Tribunale Militare Straordinario aveva condannato a morte. Tra questi fugurava un noto capobanda, Giuseppe Schiavone. Era nato a Sant’Agata di Puglia il 19 dicembre 1838. A differenza di altri insorti, Schiavone non sembrava destinato dalla nascita a condurre la grama vita del ribelle. A casa sua il pane non mancava e possedeva un minimo d’istruzione, sapendo leggere, scrivere e far di conto (cosa che a quei tempi non era da tutti). A rovinarlo fu nel febbraio del 1861 il rifiuto di vestire la divisa militare del neonato Regno d’Italia, avendo dovuto smettere quella dell’Esercito Borbonico, nel quale aveva raggiunto il grado di sergente. Come altri renitenti non poteva che darsi alla macchia. Una scelta accolta con estremo sconforto dai genitori, a dimostrazione della diversa caratura sociale della famiglia rispetto a quella dei nuclei d’origine degli altri rivoltosi. I genitori più volte invitarono il figlio a desistere da quella vita randagia, a costituirsi e collaborare con la Giustizia (per questo il Governo premiò la sua famiglia dando al fratello Domenico un posto di guardia municipale a Sant’Agata). Ma non c’era nulla da fare. Il rifiuto di Giuseppe verso il tricolore si era ormai incancrenito e la strada del giovane, segnata. Giuseppe Schiavone mise in piedi una banda, che in un secondo momento confluì in quella di Crocco. Prese parte a imprese sanguinose, sempre accompagnato dalla consorte, Filomena Pennacchio, una brigantessa da tutti ammirata e rispettata per la freddezza con cui prendeva parte agli scontri a fuoco. Questa Pennacchio che aveva avuto precedenti relazioni con lo stesso Crocco e poi con Caruso, un altro capobanda, fu la causa della fine di Schiavone. Prima di legarsi alla Pennacchio, Schiavone aveva avuto una storia con tale Rosa Giuliani. Questa, nel momento in cui si vide tradita, decise di vendicarsi. Conoscendo i movimenti della bande, di cui doveva essere una delle tante manutengole, svelò alle autorità che nella notte tra il 26 e il 27 novembre Schiavone ed altri quattro briganti si sarebbero recati nella masseria di Posta Vassalli, nelle campagne di Melfi. Per i carabinieri fu un gioco acciuffare i cinque fuorilegge. Nell’imminenza della fucilazione Schiavone mandò a dire alla Pennacchio, da cui aspettava un figlio, che voleva salutarla. Consapevole del fatto che accettare l’incontro equivaleva a costituirsi – era a sua volta ricercata – Filomena andò a salutare il suo uomo. Davanti a lei Giuseppe s’inginocchiò ringraziandola del gesto. Si strinsero un’ultima volta, poi Schiavone venne condotto al supplizio. Una volta nelle mani della Giustizia, Filomena collaborò contribuendo all’arresto di numerosi briganti. Tale collaborazione in sede di processo la salvò dalla fucilazione. Condannata a vent’anni di lavori forzati, vide la pena ridotta prima a nove, poi a sette anni. Stando ad Andrea Massaro, autore di ‘Filomena Pennacchio, la brigantessa ritrovata’ (Edizioni Il Papavero), una volta uscita di prigione la donna avrebbe sposato un “facoltoso” torinese, tale Antonio Valperga. Andata a vivere a Torino, lì condusse “vita rispettosa” sino al 17 febbraio 1915, giorno in cui si spense, “dopo aver ricevuto la bendizione papale”. Le rivelazioni del Massaro si baserebbero sul ritrovamento degli atti di matrimonio e morte della Pennacchio.

Italo Interesse

 

 

 


Pubblicato il 28 Novembre 2017

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