Cultura e Spettacoli

Spigolature di fatti e misfatti (7)

Stamane, 30 gennaio 2018, nell’assistere alla telecronaca  dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del “Consiglio di Stato”, sono stato colto, per modo di dire, da una greve e grave folgorazione, non rivoluzionaria come quella di damasco per paolo,  ma importante, per gli italiettini svogliati, non  attenti alla loro storia, al loro presente, non preoccupati, quindi, del loro futuro, in nevrotica attesa, invece, di ascoltare, fra qualche giorno, le stronzate del “festival non canoro o pseudocanoro di san remo”. In prima fila nel salone delle cerimonie dell’istituzione, sopra menzionata, l’uno accanto all’altro, due meridionali, due siciliani, la prima e la seconda magistratura dell’italietta: mattarella, presidente della repubblica; pietro grasso, presidente del senato. Immantinente, sono Riandato all’unità d’italia e ai tanti primi ministri e ministri meridionali, che fecero parte dei governi del regno savoiardo, durante il tragico scorrere degli anni dal 1861 fino al 1946, anno della cacciata, per Referendum, dei savoia. In seguito, navigando dal 1946 fino ai giorni nostri, ho Passato in Rassegna i 5 presidenti della repubblica meridionali (de nicola, segni, leone, napolitano, mattarella), i primi ministri meridionali e di centro italietta (moro, de mita, andreotti, gentiloni) e la caterva di ministri, sottosegretari meridionali, che hanno posato, solo, il culo sui cadreghini governativi. Come si spiega, allora, che, nonostante, sia trascorso oltre un secolo e mezzo dall’unità d’italia; che, nonostante nella stanza dei bottoni, per dirla alla nenni, non siano mancate le dita dei meridionali a far funzionare, si far per dire, la macchina del regnetto e, poi, della repubblichetta; che nonostante la presidenza e le direzioni generali della burocrazia amministrativa, militare, giudiziaria siano state, siano appannaggio, quasi, esclusivo di magistrati, di militari, di alti funzionari meridionali, noi meridionali dobbiamo lamentare di esser, ancora, alle pezze? Si spiega col fatto che quando fu conclusa l’unità dell’italietta, fu stipulato, secondo Gramsci, un tacito accordo tra i padroni delle ferriere e della finanza “in progress” del nord e gli agrari, i latifondisti del sud, per il quale  meridionali dovevano essere i burattini del sud (politici di piccolo e grande, se non grandissimo cabotaggio; i grandi boiardi dello stato e del parastato) al servizio dei burattinai nordisti, che progettavano e gestivano lo sviluppo economico del nord, puntando sull’eterno sottosviluppo del sud. Pertanto, la povertà del sud, con la conseguente colonizzazione interna di esso, emigrazione, in funzione della forbice, ognora più ampia, tra la prosperità del nord e la miseria del sud. E ora, con mattarella e grasso, primo e secondo, apicali nello stato italiettino? “Sicut antea”!

 

 

Per i romani antichi, non esisteva la città: essa era ed è qualcosa di astratto, mentre reali erano, sono gli abitanti di un territorio, più o meno esteso, vegetanti su/in esso  o, per miracolo, Cittadini. Pertanto, essi non dicevano “urbs romae”, sebbene “urbs romanorum”. I romani, fossero quelli della suburra o della “plebs urbana” e della “plebs rustica” o quelli del patriziato gentilizio e i loro clienti o i grandi poeti, i grandi oratori o i militi, i comandanti delle legioni, fecero grande roma. Poi, alla potenza economica, politica, militare su tutti i popoli stanziali: intorno al bacino del mediterraneo; oltre le alpi, ad est e ovest dell’europa, si accompagnò la libidine del lusso e, in preda agli stravizi, da egemoni nel mondo, allora, conosciuto,  divennero servi dei popoli barbari, che premevano ai confini, a nord e a sud del loro impero. I romani antichi lasciarono in eredità ai loro nepoti diversi manufatti di pregevole valore, artistico, architettonico, storico; poi, i papi, magari, distruggendo o spogliando di marmi pregiati i monumenti dei loro avi, rifecero roma, chiamando alla loro corte pittori, scultori, architetti di grande statura artistica, ché la riempissero di luoghi sacri, di basiliche, al servizio del presunto primato della loro fede, e richiamo di genti da tutto il mondo, per fare cassa, prima di tutto, e per ampliare la base di consenso alla loro ideologia religiosa. Domanda, alla quale devono rispondere i miei 25 lettori: se i romani attuali dovessero partecipare alla competizione, per ottenere la “dignità di capitale italiana della cultura”, basterà alla realizzazione delle loro aspettative di vittoria esibire i ruderi millenari, sopravissuti allo scorrere vandalico del tempo e alla mano rovinosa dell’uomo, oltretutto privati dell’Aura  sacrale della loro Vetustà, in quanto circondati dal frastuono profano di discoteche, pub, ristoranti, bar e dal cicaleccio dei loro avventori, non di rado, maleducati, come, a detta di Alessandro Laterza, è avvenuto a matera e non solo? Ammettiamo, pure, che i ruderi bastino, i giudici, preposti all’assegnazione del premio, di cui sopra, che genera in chi lo appetisce, esclusivamente, speranze di sviluppi commerciali, chi dovrebbero premiare: gli antichi, di essi “artifices”, o i romani odierni, che li prostituiscono, in nome del dio denaro? E può una comunità, in cui alligna la minaccia di una criminalità di cani sciolti e organizzata, del cui inestirpabile radicamento, è essa, anche, responsabile, attirare la percezione di turisti, se per raggiungere i manufatti, di cui essa  mena vanto, essi saranno obbligati a fastidiosi “slalom” tra gli escrementi di cani, affidati a padroni, indifferenti al decoro, all’onore della zolla, su cui  evacuano, “animalia”, come i loro “animalia”?

 

Pietro Aretino, già detto Avena Gaetano

 


Pubblicato il 2 Febbraio 2018

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