Cultura e Spettacoli

Teatro di ieri, pregiudizio e scandalo

I teatranti hanno sempre fatto vita grama e raminga. Una vita fatta di locande di pessima fama, pasti saltati, albergatori mandati in fresco, impresari fuggiti con l’incasso, sbirri e preti prevenuti. Per non parlare dei palcoscenici : teatri di fortuna, cose allestite alla men peggio e tra il malumore dei benpensanti, i quali nei teatranti volevano vedere solo una massa di libertini. Emblematico di tale stato di cose e di tanto oscurantismo è quanto accadde nella seconda metà del Settecento in Puglia. Nel 1759, nella sala grande del castello di Lecce, tale Francesco Pascalino di Bitonto aveva allestito un teatro “fornito tutto di palchetti di legno”. Malgrado le opere fossero recitate da “buoni e scelti cantanti, convenientemente pagati”, quel teatro dovette essere smantellato. L’attività riprese “in un magazzino sottano” del palazzo del Barone D. Carlo Tafuri, se per iniziativa ancora del Pascalino o d’altri non si sa, tacendo in proposito B. Croce, autore de ‘I teatri di Napoli’, opera da cui apprendiamo queste notizie. Ma il nuovo locale si rivelò talmente umido e freddo che “gli spettatori ne avevano nocumento”. Allora due imprenditori forse locali, Bernardini e Mancarella, edificarono a proprie spese un vero teatro nella piazza di San Giusto. L’edificio, la cui costruzione venne diretta dall’ingegner G. B. Pinto, era “molto bene architettato” sul modello del Teatro Nuovo di Napoli. Nel 1765 il nuovo teatro di Lecce divenne il bersaglio degli strali dei soliti bigotti i quali sottoscrissero una supplica al Preside (equivalente dell’odierno Sindaco) : “Colle opere in musica che vi sono rappresentate in ogni anno da canterine le più licenziose e disoneste, molti cittadini si sono rovinati nell’anima e nella roba e tutti quei che non han sofferto interesse sono rimasti pregiudicati nella coscienza per lo scandalo che han riportato dal vivere troppo libero e dissoluto di simili donnaccie (sic)”. L’anno prima c’era stata la carestia, “ed era il Regno tutto flagellato dalla Divina Giustizia con universal penuria di pane, quando fattesi in Lecce le sacre missioni per impetrare la Divina Misericordia e congregatosi il popolo supplicante entro la sua Chiesa Madrice, promise risolutamente al Signor Iddio di non volere più il maledetto teatro”. Il Preside chiese lumi all’Intendente che non gli ordinò di interrompere le rappresentazioni ma di vigilare al fine di “evitare gl’inconvenienti colla buona disciplina”. Ma le suppliche, ancora anonime, non si fermavano. La situazione si fece scottante nel 1769. Nella compagnia che recitava in quel teatro era una “canterina”, Emmanuela Cosmi, detta la Positanella, che aveva ruolo di “primo uomo” (s’immagini che scandalo per i benpensanti). Per di più la Positanella  stava per sposare tale D. Vincenzo Mellone, figlio di D. Giuseppe. Erano padre e figlio figure di spicco della Lecce-bene? Croce non lo dice, il resto della storia però lo fa pensare poiché un ordine del Re cacciò la prima da Lecce e mise l’altro “in carcere, a disposizione di suo padre”. Il provvedimento regale segnala quanto in alto fossero arrivati “i missionari” che si erano scagliati contro il teatro. E il clamore del caso è confermato dalla severità con cui venne trattato l’incauto Vincenzo, sottoposto a misure di cautela vicine agli odierni arresti domiciliari.

Italo Interesse

 


Pubblicato il 31 Luglio 2018

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