Cultura e Spettacoli

“A grandezza naturale” il libro di De Luca che indaga sulla genitorialità

Il verbo Kabbed in ebraico ha il significato primario di ‘ onorare ‘, riferito sia a Dio, sia al senso di riconoscenza dovuto verso chi ci ha messi al mondo, i nostri genitori. Questo implica però anche una sorta di responsabilità a cui non potersi sottrarre, quasi un peso che trasciniamo nel corso delle nostre esistenze senza mai liberarcene. Sul senso profondo di questo enigmatico paradosso si interroga il noto scrittore Erri De Luca, nel suo bellissimo libro “A grandezza naturale” che ha presentato durante la prima serata della manifestazione del Libro Possibile a Polignano a mare, introdotto da Rosella Santoro. “ Non capirà mai nessuno quanto amore mettiamo anche solo nello sguardo verso le persone che amiamo.” dichiara l’autore cercando di farci comprendere il senso di questa sua ricerca senza fine nella storia della genitorialità, in cui si spazia da Marc Chagall a Isacco. Interrogandosi su cosa voglia dire essere figlio e padre.

Essere padre forse significa accettare anche grandi allontanamenti e dolori che sembrano lutti, quelle perdite che sembrano sacrifici offerti, coscientemente, ma anche atti di libertà, di ricerca di identità, e di disobbedienza. ‘A grandezza naturale’(edito da Feltrinelli) inizia con la storia di Marc Chagall, che davanti a una tela esprime la nostalgia per il padre in colate di nero, cercando una specie di risarcimento per una rottura che lui stesso ha creato. Marc ha lasciato la sua terra, è andato a Parigi, ha disconosciuto l’impronta  paterna che adesso tenta di onorare, facendone colore. Perché questo peso, appunto, quello ricevuto a venire al mondo, quello dato agli altri, quello del rimorso nell’anima, vada in qualche modo alleviato. Nella lontananza del suo esilio, egli sente una sorta di riconoscenza verso il padre e lo dipinge, a grandezza naturale, per guardarlo ancora in faccia, riconoscendone i tratti amati e familiari, ma anche le caratteristiche che lo hanno portato a fare scelte autonome, allontanandosene. Prima sparge un arcobaleno opaco intorno alla testa, un’aureola colorata. Uno sfondo luminoso, com’è il passato lontano, che non era l’oggi, il tempo in cui la figura paterna era presente. La presenza si fa viva sotto la pressione del rimorso, della lontananza e della gratitudine.

Nelle storie estreme di De Luca ci sono figli che hanno rinnegato la propria origine, che hanno cercato di cancellarla, come la figlia del criminale di guerra che non può fare altro che una scelta assoluta: negare a se stessa la genitorialità, per interrompere quell’eredità di odio che detesta. Con il termine “Befehlsnotstand”, in tedesco si indica la costrizione dovuta a obbligo di obbedienza, una sorta di ricerca di attenuanti per le colpe dei padri. Solo così, non potendo sciogliere il vincolo di figlia, impedisce a se stessa di essere madre, spezzando una catena di costrizioni che non può accettare. Ci sono figli poi che hanno superato i padri: ‘Akedà’ è la parola ebraica che definisce l’incaprettamento di Isacco. Pronto a farsi sgozzare senza una parola, perché la ribellione al padre risulta inconcepibile, Isacco sancisce un legame definitivo, un nodo che non si scioglie, nemmeno quando i capi della corda vengono spezzati da Abramo, una prova di obbedienza assoluta che annichilisce qualsiasi tentativo di reazione.

La verità sembra essere che le lezioni dei padri permangono, nei valori condivisi, negli insegnamenti non dettati ma vissuti. per Erri figlio c’è il senso profondo di onestà e amore verso una famiglia per bene, verso un’educazione fissata sul principio del farsi bastare quello che si ha e di vivere senza pesi sulla coscienza e debiti verso nessuno. C’è una gratitudine sentita nelle viscere, nel calore della brace, in gesti vissuti che sono stati quotidiani e antichi e nell’anima si fanno eterni. Così Erri De Luca dipinge il suo ritratto ‘ a  grandezza naturale’ della paternità, frammentandolo e ricercandone il senso attraverso le storie estreme dell’umanità, di chi ha dovuto rispondere a un debito di riconoscenza con il passato, con la consapevolezza e il rimorso che tra padri e figli non si chiude mai il cerchio. È un legame infinito che non potrà mai sciogliersi. L’akedà è un legame che travalica il tempo, anche con la consapevolezza acquisita con la distanza, di allontanamenti spaziali o temporali, anche razionalizzata in un addio tardivo, perché dal proprio sangue e da chi ci ha creati ed educati alla fine non ci si potrà staccare mai.

Rossella Cea


Pubblicato il 9 Luglio 2021

Articoli Correlati

Pulsante per tornare all'inizio