Cronaca

Bonificare il Tamburi. E la Fibronit?

Giampiero Corvaglia, amministratore di ‘Axa servizi per l’ambiente’, la società che ha vinto la gara d’appalto per la bonifica del rione Tamburi, il quartiere tarantino più esposto ai veleni dell’Ilva, ha annunciato che l’intervento richiederà centocinquanta giorni e consisterà nella rimozione di trenta centimetri di terreno da una superficie di 36mila e 400 metri quadri fra aiuole ed aree verdi (l’intervento, che si annuncia prossimo, avverrà sotto una pioggia artificiale per contrastare la dispersione di polveri nocive). A parte il problema della messa in sicurezza delle tonnellate di materiale asportato, l’operazione sarà sufficiente? Le sostanze tossiche prodotte dall’infausta acciaieria non si sono infiltrate solo nel terreno di giardini e parchi, sono penetrate anche fra le pietre dei muri esterni e dei lastrici solari delle abitazioni attraverso le stesse fessure per le quali s’infiltra l’umido. E siccome non esiste pavimentazione stradale ineccepibile, stesso discorso vale per l’asfalto. A voler fare le cose seriamente ci sarebbe da buttare giù tutto. E’ quanto s’intende fare a Bari con i ruderi della Fibronit. E quanto fecero a Seveso dopo il disastro del 1976. Come si ricorderà, il 10 luglio di trentanove anni fa quel comune della Brianza fu investito da una nube di diossina liberatasi dall’impianto chimico ICMESA. Quando si decise di porre rimedio alla catastrofe, il territorio fu suddiviso in tre zone a decrescente livello di contaminazione sulla base delle concentrazioni di TCDD nel suolo: zona A, B, e R. Le abitazioni comprese nella zona A, la più colpita, furono demolite e il primo strato di terreno venne rimosso. Nelle zone B ed R, ovvero zona di rispetto, fu imposto il divieto di coltivazione e di allevamento. Successivamente, vennero create due enormi vasche di contenimento, costantemente monitorate, nelle quali venne riposto tutto ciò che era presente nella zona A, il terreno rimosso e anche i macchinari utilizzati per la demolizione e gli scavi. Al di sopra di queste due vasche sorse dopo il Parco Naturale Bosco delle Querce, oggi aperto alla popolazione. Tornando a Taranto, l’intervento si annuncia più di parata che di sostanza. L’impossibilità pratica ed economica di radere al suolo un quartiere dalle dimensioni imbarazzanti (l’area circoscrizionale è di 37, 85 km quadri) condanna migliaia di residenti a dimenticare, a consegnare un vuoto di memoria a eredi e discendenti. D’altra parte potrebbero costoro fare diversamente? A Bari i residenti di Japigia le cui abitazioni erano prossime alla Fibronit hanno dovuto fare la stessa cosa. La polvere d’amianto non è stata mortale solo per gli operai di quello stabilimento, uomini mandati allo sbaraglio come  fanti alla Grande Guerra. E chi vivendo in zona invece di un tumore abbia rimediato qualche altro guaio non ritenga la Fibronit estranea alla cosa. A Taranto, sia pure alla buona, hanno finalmente deciso di intervenire. Noi a Bari ci godiamo ancora quei bei ruderi.

Italo Interesse

 


Pubblicato il 3 Marzo 2015

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