Cultura e Spettacoli

La folle estate venosina

Chi crede che l’estinto fenomeno del tarantismo abbia riguardato solo la Puglia è in errore. Nel suo prezioso ‘Dialogo delle tarantole’, citato anche da De Martino ne ‘La terra del rimorso’, il medico melfitano Vincenzo Bruni descrive cosa accadde a Venosa nell’estate del 1596. Il fenomeno che dilagò tra la popolazione con la virulenza tipica dell’isteria collettiva fu preceduto da “funesti prodigi e sciagure” : il 14 luglio apparve in cielo una cometa, l’11 agosto “due torri di fuoco” si levarono all’orizzonte verso occidente, il 12 agosto caddero chicchi di grandine pesanti mezza libbra… Terminati i “segni”, si scatena l’epidemia : Una donna semi analfabeta si mette a cantare componendo versi rimati in volgare e manifestando il dono della profezia ; una giovane della famiglia Sansovino balla per quindici giorni e parla in ebraico, lingua a lei sconosciuta ; un altro tarantato crede nel suo delirio di dover mettere al mondo un pargolo ; un sarto, pur sciancato, si pone dinanzi a “un clavicembalo male ordinato e una rebecchina senza corde” e credendosi il “gran musico” Giovanni Agostino Veneziano alla corte d’Alfonso d’Este, mima un concerto cantando “barzellette mai intese”. Frequenti sono i casi di tarantismo “famigliare”, nei quali più persone stimolate dallo stesso “estro” si coordinano come in una rappresentazione scenica. La figlia di Fabio Speraindeo, Francesca, credendosi baronessa,  “tiene presso di sé un capitano, alleato compiacente o tarantato anch’esso”, col quale “intreccia frenetiche danze”. Una Lalla Gammone per molti giorni si atteggia a gran signora e si fa servire da molti venosini che assolvono a tavola le mansioni chi di coppiere, chi di scalco e chi di paggio. Alcune sorelle recitano scene di vocazione monacale, quindi danzano sino a “cadere stracche”. In alcuni casi la taranta che possiede il tarantato ha un nome. Essa si chiama Faustina  nel caso di un tale Di Campagna, “fratello di maestro Giovanni Antonio”, il quale ballando con due spade nelle mani sotto le mura del monastero di Santa Maria della Scala grida e invoca il nome di alcune monache con tanto “trasporto di cuore che sembra morirne”. In un altro caso la taranta ha nome Caterina ed è responsabile dell’invasamento di una giovane serva e del suo padroncino di dieci anni i quali odono dallo strumento musicale che ne accompagna le danze gli ordini e gli ammonimenti che vengono dalla “tarantola lor signora” ; per quattro giorni essi ballano dicendosi “cose indicibili” sino a che la Vergine non arriva in soccorso facendo “crepare” il ragno ; il quale momento è sottolineato da precise parole : ‘Signora Caterina, Signora Caterina, dammi licenza fina. Tu licenza mi fai e tu Madonna liberata m’hai… Così sanata sò, schiatta mò e crepa mò”.  Ma il Bruni aggiunge che quelle pie parole della serva  erano accompagnate da altre e impensabili per la bocca di una “donna figliola”, cioè ancora nubile… Osservando il tutto col distacco dei quattro secoli passati viene da pensare che non tutti a Venosa in quei giorni fossero effettivamente in preda alla taranta, che i pochi invasati lo fossero sino a un certo punto e che i più fingessero. Troppo grosso l’alibi per non approfittarne. Tra bisogno rabbioso di deridere intoccabili o, meglio ancora, praticare sesso puntualmente proibito, a Venosa si moriva dal desiderio di trasgredire. Realtà o finzione, di fatto quell’indimenticabile estate venosina fu un ritorno di fiamma degli antichi e sani carnevali pagani

Italo Interesse

 


Pubblicato il 23 Luglio 2014

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