Cronaca

Meraviglie perdute di Puglia

A proposito della Puglia l’industria del turismo insiste sulle bellezze naturali oltre che sulle seduzioni gastronomiche e architettoniche. Se con un pizzico di generosità è lecito parlare oggi di “splendidi paesaggi”, che si sarebbe dovuto dire della Puglia di soli 150 anni fa? Si può dire sia la nostra regione quella che più di tutte le altre ha cambiato pelle dall’unità d’Italia ad oggi, dal confronto uscendone pesantemente sconfitta. Perché è esistita una Puglia mozzafiato di cui si può avere un’idea solo al prezzo di un grande sforzo d’immaginazione. Interamente coperta di boschi, la nostra terra vide quel superbo manto vegetale abbattuto al 90% nel giro di pochissimi anni, quando l’arrivo (in ritardo) della rivoluzione industriale impose l’impiego dell’unico combustibile a disposizione in loco (la legna). Inaridendo il suolo, il disboscamento dissennato produsse anche la scomparsa di fiumiciattoli confluenti nei pochi corsi d’acqua. E le voragini lasciate dalle cave esauste, le colline sventrate ancora per ricavare pietra, le tante discariche, abusive e non? Certe cicatrici sulla ‘pelle’ del territorio erano impensabili ai tempi dei briganti. La stessa devastazione non ha escluso ampi tratti di costa dove l’opera del piccone ha scolpito scenari innaturali, utili solo come location per film a sfondo metafisico. La costiera adriatica ha più ragione di lamentarsi di quella ionica. L’antropizzazione selvaggia, per esempio, ha cancellato l’originale habitat da Barletta a San Giorgio. Cinquanta chilometri di asfalto e cemento a ridosso della battigia, milioni di tonnellate di terriccio e scogli artificiali scaricati a riva per costruire strade e porti e sotto cui dormono, irrecuperabili, penisolette, piccole cale e altri scorci meravigliosi. Sempre in riva all’Adriatico, da Manfredonia a Brindisi saranno scomparsi un cento chilometri quadrati di zona umida. Con l’opera di bonifica avvenuta nel Novecento non è rimasto praticamente più nulla delle aree paludose originate dall’accumulo di alghe per via del gioco sfavorevole delle correnti marine. E il lavoro implacabile delle ruspe in corrispondenza delle medesime aree ha fatto strage di elevate creste sabbiose, dune bellissime che snodandosi parallelamente al mare formavano una lunga barriera minerale che difendeva la vegetazione dell’entroterra dall’azione devastante del maestrale. Resta da dire delle migliaia di caverne marine prodotte dall’azione di scavo del mare e nel tempo venute meno per sopravvenuta insufficienza d’appoggio del tetto ipogeo. Ma se a quest’ultimo proposito possiamo rimproverarci ben poco e realizzare impotenti un mutamento costante della linea di costa, ben abbiamo ragione di batterci il petto per quelle gigantesche pale eoliche che rendono innaturale molti scorci paesaggistici del sub Appennino dauno. L’evidenza di un secolo e mezzo di danni non ha insegnato nulla.

Italo Interesse


Pubblicato il 9 Febbraio 2013

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